23 gennaio 2020: Sessantesimo anniversario della storica immersione del Batiscafo Trieste
Il 23 gennaio di sessant’anni fa esattamente alle ore 13.06 il Batiscafo Trieste ideato da Auguste Piccard e pilotato da suo figlio Jacques Piccard, con a bordo il luogotenente della Marina statunitense Don Walsh, raggiungeva il punto più profondo del pianeta terra – (11°-18.5N 142°-15.5E) – situato nell’Oceano Pacifico. Quel giorno si concretizzava con un successo senza precedenti “the Deepest Man’s Dive”, l’’immersione più profonda mai raggiunta da un equipaggio umano. La distanza stellare che separava i due coraggiosi uomini del Trieste dalla superficie era di 10.916 metri. Quel buio profondo che da millenni, fin dai racconti biblici, aveva catalizzato la paura dell’ignoto e attratto generazioni di esploratori potè finalmente esser toccato con mano e per la prima volta un uomo – una mente pensante e non un robot – aveva potuto vedere quell’habitat estremo direttamente attraverso un oblò senza che un’interfaccia tecnica, un monitor o una asettica sequenza di dati, ne limitasse l’emozione diretta. Nel 1960 il mondo infatti era ancora in un’epoca pre-digitale e pre-satellitare. Oggi la moderna tecnologia ha permesso di mappare il fondale oceanico quasi nella sua totale vastità con una approssimazione di qualche decina di metri, ma allora non esisteva alcuna cartografia sicura per affrontare quel viaggio in termini meno indeterminati. Per localizzare il crepaccio della Challenger Deep fu neccessario far precedere l’immersione record del Trieste da una mappatura del fondale oceanico con l’impiego di cariche di esplosivo in modo che l’eco delle conflagrazioni rimbalzando sul plateau abissale ne rivelasse la distanza. Appena nell’agosto 1959, solo 5 mesi prima della grande immersione del Trieste, attraverso le misurazioni della nave oceanica Stranger, la comunità scientifica internazionale aveva individuato con certezza il punto più profondo del pianeta comparando due siti vicini: la Fossa delle Filippine e la Fossa delle Marianne, entrambe dislocate sulla dorsale oceanica. Il crepaccio della Challenger Deep risultava più profondo della Fossa delle Filippine con un margine di un’ottantina di metri, e il risultato era stato immediatamente comunicato alla Marina Statunitense proprio in vista dell’immersione del Trieste. I sonar della nave oceanica, come in un portolano cinquecentesco che non dava alcuna informazione di cosa stesse al di là della linea di costa, ne avevano tracciato una sbiadita immagine leggermente curvata a semicerchio di poche migliaia di metri nell’immensità sconosciuta circostante, ben poca cosa se volessimo fare un paragone con le accurate mappe fotografiche con cui si affrontò pochi anni dopo il primo viaggio sulla luna. Mai nessuno prima di allora aveva varcato la soglia di quell’universo sconosciuto e il rischio di insuccesso era ovviamente altissimo. Se i calcoli di Auguste Piccard non fossero stati assolutamente precisi e la costruzione della cabina e del galleggiante del batiscafo non fossero state tecnicamente impeccabili, e non da ultimo se le manovre neccessarie per pilotare quel gioiello tecnologico a quelle profondità non fossero state calibrate a millimetro con una determinazione e precisione tipicamente svizzere, la pressione altissima della massa d’acqua marina che gravava sulla navicella sferica avrebbe potuto schiacciarla con estrema violenza come un uovo stretto nel pugno di una mano. Ma anche se tecnicamente tutto fosse filato per il verso giusto, rimaneva pur sempre l’incognita di madre natura di cosa si sarebbe potuto trovare lì sotto. Come i venti che nell’atmosfera terrestre modificano l’ascesa di una mongolfiera o di un pallone aerostatico senza alcuna possibilità di manovra da parte dell’equipaggio, anche le forti correnti oceaniche e gli imprevedibili sbalzi di temperatura negli strati di acqua marina potevano costringere a riemergere il batiscafo senza poter raggiungere il fondo. Fu dunque un’impresa eccezionale quella di Jacques Piccard al comando del Trieste, che giustamente è entrata nella storia delle grandi esplorazioni del nostro pianeta, oggi universalmente riconosciuta come una pietra miliare nel campo dell’oceanografia e della biologia marina. Sì, perché da quel piccolo oblò di plexiglass i due uomini d’equipaggio poterono scorgere per un attimo il guizzo di un pesce abissale, una forma di vita superiore che fino a quel 23 gennaio 1960 la maggioranza della comunità scientifica pensava fosse teoricamente impossibile incontrare in quell’ambiente estremo.
Come titolarono allora molti giornali internazionali si concludeva così nel migliore dei modi la corsa al record assoluto di immersione. Con il Batiscafo Trieste La US Navy per prima aveva conquistato l’“inner space” – lo spazio “interno” – della Terra, per distinguerlo da quello esterno al pianeta. Idealmente l’Uomo nell’arco di 150 anni, dopo essersi spinto nei luoghi più estremi della terra e del mare – Polo Nord, Polo Sud, Stratosfera, Monte Everest, Fossa delle Marianne – era riuscito a varcare l’ultimo orizzonte fino allora rimasto inviolato, e la sfida tra grandi potenze si spostava ora al di fuori del pianeta, ingranando la marcia accelerata per la conquista dello spazio che solo pochi anni dopo anni avrebbe portato un Uomo sulla Luna.
L’avventura del Batiscafo Trieste era iniziata ufficialmente invece 8 anni prima, proprio a Trieste, il 2 giugno del 1952, quando dalla piccola città appena uscita dagli orrori della seconda guerra mondiale, in una conferenza stampa indetta nella Sala di Rappresentanza del Comune di Trieste, l’allora sindaco Gianni Bartoli diede il “la” all’intera operazione annunciando ufficialmente il progetto di far costruire a Trieste dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico il batiscafo di Piccard con l’appoggio economico e logistico della città tutta. La motivazione ufficiale era quella che la città si sentiva naturalmente volta ad aiutare le missioni scientifiche di ampio respiro per testimoniare la sua vocazione internazionale. L’idea ovviamente non era nata dall’oggi al domani, ma il frutto di una singolare unione di circostanze favorevoli solo recentemente venute alla luce dalla lettura di alcuni documenti di Diego de Henriquez, rimasti celati per quasi sessant’anni negli scaffali dell’archivio del Museo di Guerra per la Pace di Trieste. Qualche tempo prima, nei primi mesi del 1948, vi fu un incontro – probabilmente non del tutto casuale – dei due protagonisti d’eccezione di questa storia, il giovane Jacques Piccard che a Trieste avrebbe fatto una ricerca economica sul TLT per il suo dottorato di ricerca in economia e Diego de Henriquez, fondatore del Museo di guerra per la pace che facilitò il giovane studioso svizzero negli ambienti politico-economici della città, proponendosi anche come consulente storico delle vicende antiche e recenti della città. Il territorio triestino in quegli anni difficili era posto sul filo del rasoio della cosiddetta “cortina di ferro”, proprio sul confine di due territori abitati da ideologie ed economie opposte, in stato di “guerra fredda”, che avrebbero potuto facilmente smembrare la città contesa tra i due blocchi con un micidiale muro divisorio come era successo a Berlino. La diplomazia internazionale aveva voluto creare uno stato cuscinetto, il TLT un Free Territory of Trieste, evitando soluzioni drastiche e senza ritorno, come il ricorso alle armi e la riapertura di uno stato endemico di crisi in piena Europa. Quell’esperimento virtuoso della diplomazia internazionale aveva attratto non pochi osservatori politico economici da molti Paesi, suscitando l’interesse anche del giovane Jacques Piccard, figlio dell’allora più celebre padre Auguste, lo scienziato che per studiare i raggi cosmici per primo s’era spinto nella stratosfera su un pallone aerostatico di sua invenzione.
In una lettera del giugno 1948 indirizzata al prof. Diego de Henriquez, Jacques Piccard confidò al suo mentore che gli aveva “spesso parlato dei suoi progetti per creare un mondo migliore e più pacifico, per utilizzare al meglio le buone volontà così numerose sulla terra” e che Trieste in quel contesto particolare in cui si trovava “posta sui confini di due mondi così differenti” avrebbe potuto rivestire un ruolo positivo di primo piano. Diego de Henriquez infatti da molti anni stava pensando che solo con esempi positivi di tecnologia applicata alla scoperta scientifica si sarebbe potuto uscire dal nichilismo distruttivo dell’essere umano, da quella creatività diabolicamente negativa che le sue collezioni – con esempi tratti da ogni epoca passata – testimoniavano con assoluta evidenza. La sua spinta ideale, incontrando nei Piccard dei partner d’eccezione che nel suo visionario amore per la città lo spinse a profetizzare con decenni di anticipo un futuro internazionale scientifico di riferimento europeo, funse da catalizzatore per quel progetto esplorativo senza precedenti: costruire a sue spese il batiscafo dei Piccard, per dar vita al sogno che fin da giovane, Auguste aveva nutrito di esplorare il pianeta Blu e scoprire il mistero della meravigliose espressioni di vita abissale. Offrendo liberamente tutto il suo appoggio, anche economico – per quanto le finanze di Diego de Henriquez fossero tutt’altro che enormi, fu dunque possibile iniziare quel progetto e portarlo a termine in tempi brevissimi con l’aiuto di altri operatori economici italiani e svizzeri. Fin dall’inizio l’ambizioso progetto decollò in un clima di assoluta libertà, svincolandolo da imposizioni militari. In cambio il batiscafo, finite le esplorazioni della Fossa Tirrenica avrebbe potuto far parte del suo Museo.
Le cose poi, come sappiamo, seguirono un corso diverso e, dopo la campagna di esplorazioni del Tirreno, che portarono il Batiscafo Trieste a raggiungere il suo primo record di profondità a 3050 metri al largo dell’isola di La Ponza, con l’appoggio della Marina Italiana, fu successivamente acquistato dalla Marina Statunitense per tentare di stabilire il record assoluto nelle profondità abissali del Pacifico.
Il Batiscafo dei Piccard arrivò nella base militare di Guam nel 1958 e nei due anni seguenti fu inserito in un progetto denominato NEKTON, che alla prevalente ricerca scientifica, vedeva in quel mezzo straordinario, la possibilità di dotare la marina statunitense di utilizzarlo anche per obiettivi militari. L’osservazione diretta del mare profondo se da un lato dava la possibilità di aprire una nuova era negli studi di oceanografia, dall’altro poteva anche essere indirizzata al recupero di satelliti militari caduti in mare o, come successe nel 1962 per la localizzazione di sommergibili in avaria che erano sprofondati accidentalmente a profondità irragiungibili da un normale mezzo subacqueo.
Per la città di Trieste quella piccola alabarda bianca su scudo rosso che Auguste Piccard e Jacques Piccard vollero mantenere sulla loro creazione, anche quando le condizioni internazionali erano cambiate, ebbe un valore simbolico eccezionale e duraturo. In riconoscenza del grande apporto dato all’immagine della città, a pochi mesi di distanza da quell’impresa i due Piccard vennero iscritti all’Albo dei cittadini onorari di Trieste con la seguente motivazione:
“Scienziati
di chiara fama
per
le loro scoperte nel campo della stratosfera e delle profondità
e
aver legato il nome di Trieste al glorioso batiscafo.”
(20 giugno 1960)
Anche oggi la città, in linea con le nuove direttive del ministro Franceschini su cultura e turismo da integrare sempre di più nei prossimi anni in un circolo virtuoso, dovrebbe rendere omaggio al Batiscafo Trieste e alla sua eccezionale storia scientifica, proponendo un allestimento fisso in un Museo del Mare di respiro europeo, da sfoggiare come un fiore all’occhiello da tramandare con orgoglio alle nuove generazioni.
Come sessant’anni fa, il Batiscafo Trieste – ovvero la sua potente storia senza eguali che lo rende sicuramente un unicum senza rivali – riuscirà sicuramente ancora una volta a far catalizzare le idee positive di chi si batte per l’eccellenza e continuare come un simbolo a portare alto il nome di Trieste, attirando grandi cifre di turisti nella piccola città dalla vocazione internazionale che gli diede i natali sperando, nonostante le difficoltà di quegli anni di guerra fredda in un futuro di pace.